22-11-2017, 16:00
♫ ♪♫ ♪ theme ♫ ♪♫ ♪
La superficie del laghetto è così immobile da apparirmi solida, quasi fosse metallo scuro percorso da leggeri bagliori argentei. La notte è prossima al termine e sono rimasta sola, ma non ho voglia di andarmene da questa oasi di silenzio.
Fisso le aque nere e le immagino tingersi di cremisi. Una macchia sanguigna oleosa, che si espande e poi sprofonda verso gli inesplorati abissi, dando in pasto all'oscurità ciò che stoltamente ambiva alla luce.
Invece l'argento rimane immutato, beffardo e sfrontato, offendendo il mio sguardo che anela a una nera quiete.
Il pugnale inviolato, la mia mano scevra dall'onta, soltanto per questa notte.
Non so quanto tempo sia passato, una sottile brezza si alza mentre il cielo inizia a schiarire nell'indistinta linea in cui incontra il suolo, da qualche parte oltre le dolci sagome delle colline.
Ma io ancora osservo il lago e penso. Penso in continuazione, sento in continuazione. Ma il mio pensiero è privo di emozione.
Lentamente lascio che la mia ombra si allunghi verso la riva, soltanto nella mia immaginazione, e da una botola situata in cima inizio a precipitare verso lo spazio infinito, in una caduta senza direzione, vuota.
La mia anima è un buco nero, una vasta vertigine intorno al niente, un movimento di un oceano senza confini intorno ad una fossa nel nulla. E nelle acque, che più che acque sono turbini, galleggiano le immagini di ciò che ho visto e sentito nel mondo: vorticano case, volti, libri, echi di musiche e spezzoni di voci in un turbine sinistro e senza fondo.
E io, proprio io, sono il centro che esiste soltanto per una geometria dell’abisso, sono il nulla intorno a cui questo movimento gira, fine a sè stesso.
Sono io il pozzo senza pareti, che pur oppone resistenza come se ne avesse. Sono io il centro del tutto, con il nulla intorno.
Un raggio di sole mi sfiora il volto costringendomi a riemergere dalle profondità del lago della mia mente. E' uno strattone violento che mi dilania e mi scaraventa sul palcoscenico che sono costretta a calcare anche quando vorrei solo poter scomparire. Le luci di scena mi bruciano le iridi ma la maschera non cola mai via.
Del resto in cosa posso contare se non su me stessa? Su quel terribile acume di sensazioni che così di rado riesco a provare, su un’intelligenza acuta pronta a distruggermi, e un potere di sogno desideroso di distrarmi.
Fisso le aque nere e le immagino tingersi di cremisi. Una macchia sanguigna oleosa, che si espande e poi sprofonda verso gli inesplorati abissi, dando in pasto all'oscurità ciò che stoltamente ambiva alla luce.
Invece l'argento rimane immutato, beffardo e sfrontato, offendendo il mio sguardo che anela a una nera quiete.
Il pugnale inviolato, la mia mano scevra dall'onta, soltanto per questa notte.
Non so quanto tempo sia passato, una sottile brezza si alza mentre il cielo inizia a schiarire nell'indistinta linea in cui incontra il suolo, da qualche parte oltre le dolci sagome delle colline.
Ma io ancora osservo il lago e penso. Penso in continuazione, sento in continuazione. Ma il mio pensiero è privo di emozione.
Lentamente lascio che la mia ombra si allunghi verso la riva, soltanto nella mia immaginazione, e da una botola situata in cima inizio a precipitare verso lo spazio infinito, in una caduta senza direzione, vuota.
La mia anima è un buco nero, una vasta vertigine intorno al niente, un movimento di un oceano senza confini intorno ad una fossa nel nulla. E nelle acque, che più che acque sono turbini, galleggiano le immagini di ciò che ho visto e sentito nel mondo: vorticano case, volti, libri, echi di musiche e spezzoni di voci in un turbine sinistro e senza fondo.
E io, proprio io, sono il centro che esiste soltanto per una geometria dell’abisso, sono il nulla intorno a cui questo movimento gira, fine a sè stesso.
Sono io il pozzo senza pareti, che pur oppone resistenza come se ne avesse. Sono io il centro del tutto, con il nulla intorno.
Un raggio di sole mi sfiora il volto costringendomi a riemergere dalle profondità del lago della mia mente. E' uno strattone violento che mi dilania e mi scaraventa sul palcoscenico che sono costretta a calcare anche quando vorrei solo poter scomparire. Le luci di scena mi bruciano le iridi ma la maschera non cola mai via.
Del resto in cosa posso contare se non su me stessa? Su quel terribile acume di sensazioni che così di rado riesco a provare, su un’intelligenza acuta pronta a distruggermi, e un potere di sogno desideroso di distrarmi.
Mi alzo e sfido l'alba come fosse l'ultimo baluardo incrollabile della mia volontà che si pianta granitica contro il mondo, affondando le radici nella terra arida come un albero morto e senza germogli che tuttavia prospera.
Ripenso alle sue parole di poche ore fa, a quella voce che non sentivo da troppi anni e che a stento ricordavo. La sua figura a malapena familiare che lentamente si distorce e si riplasma costringendomi a rivedere lei: l'unica donna che temo ed amo, la madre spietata di ciò che la vita mi ha reso.
Lentamente ricollego gli avvenimenti degli ultimi giorni, gli incontri più insignificanti, gli sguardi per strada, ed inciampo al pensiero di Trevor che si insinua estraneo in queste riflessioni. Un brivido lungo la schiena mi costringe a muovermi a raccogliere le mie cose e incamminarmi verso il sentiero, come se potessi scappare da quello sguardo che sembra vedere ogni cosa.
Respiro a fondo e lascio che la mia mente torni su di lei: un solido appiglio nella notte che mai passa, una nuova linfa che forse potrà ridarmi quella sensazione di incrollabilità che solo Shayla sapeva creare.
Le sue parole sono come musica liquida che scivola sulla pelle dissetando l'anima avvizzita. D'un tratto il controllo assoluto mi sembra nuovamente possibile, la smania decresce e il bisogno distruttivo viene incanalato con tanta semplicità.
L'orlo del precipizio è sempre lì, ma ora posso allontanarmi e riderne come la più folle delle funambole che non teme vertigine.
Anche i dubbi sbiadiscono, e il terrore di sbagliare di nuovo, di lasciarmi troppo coinvolgere...Tutto è lontano.
La sensazione della sofferenza pura riaffiora nel silenzio di un’oscurità silenziosa ed avvolgente, ed io sono pronta ad affrontarla di nuovo, pronta a sublimare la perdita e ritrovare l'equilibrio che annulli l’inquietudine.
Seguo il sentiero verso Peldan, incrociando i primi carri di mercanti, ed inizio a ridere di cuore, una risata liberatoria e assolutamente priva di allegria.
Rido di me, persa per il mondo, e di lei che allunga la sua sinuosa e vorace ombra oltre il deserto, al di là delle montagne e dei mari, fino a qui, in queste valli sperdute dove una delle sue più riuscite creazioni annaspa nel fango.
Incrocio lo sguardo di un paio di contadini, affondo nella vacuità delle loro misere esistenze. Larve della dissipazione, vermi che provocano nausea alla stessa coscienza che li cresce.
Ma se mi concentro posso sentire il profumo delle essenze bruciate e le voci che affiorano dal mio passato.
Eccoli davanti a me in una tetra parata: i sentimenti più dolorosi, le emozioni più pungenti, l’ansia di cose impossibili e la tremenda nostalgia di ciò che non c’è mai stato, il desiderio di ciò che avrebbe potuto essere, l’insoddisfazione per l’esistenza stessa del mondo.
Devo rimanere concentrata: c'è molto da portare a termine. Non posso fallire.
Ripenso alle sue parole di poche ore fa, a quella voce che non sentivo da troppi anni e che a stento ricordavo. La sua figura a malapena familiare che lentamente si distorce e si riplasma costringendomi a rivedere lei: l'unica donna che temo ed amo, la madre spietata di ciò che la vita mi ha reso.
Lentamente ricollego gli avvenimenti degli ultimi giorni, gli incontri più insignificanti, gli sguardi per strada, ed inciampo al pensiero di Trevor che si insinua estraneo in queste riflessioni. Un brivido lungo la schiena mi costringe a muovermi a raccogliere le mie cose e incamminarmi verso il sentiero, come se potessi scappare da quello sguardo che sembra vedere ogni cosa.
Respiro a fondo e lascio che la mia mente torni su di lei: un solido appiglio nella notte che mai passa, una nuova linfa che forse potrà ridarmi quella sensazione di incrollabilità che solo Shayla sapeva creare.
Le sue parole sono come musica liquida che scivola sulla pelle dissetando l'anima avvizzita. D'un tratto il controllo assoluto mi sembra nuovamente possibile, la smania decresce e il bisogno distruttivo viene incanalato con tanta semplicità.
L'orlo del precipizio è sempre lì, ma ora posso allontanarmi e riderne come la più folle delle funambole che non teme vertigine.
Anche i dubbi sbiadiscono, e il terrore di sbagliare di nuovo, di lasciarmi troppo coinvolgere...Tutto è lontano.
La sensazione della sofferenza pura riaffiora nel silenzio di un’oscurità silenziosa ed avvolgente, ed io sono pronta ad affrontarla di nuovo, pronta a sublimare la perdita e ritrovare l'equilibrio che annulli l’inquietudine.
Seguo il sentiero verso Peldan, incrociando i primi carri di mercanti, ed inizio a ridere di cuore, una risata liberatoria e assolutamente priva di allegria.
Rido di me, persa per il mondo, e di lei che allunga la sua sinuosa e vorace ombra oltre il deserto, al di là delle montagne e dei mari, fino a qui, in queste valli sperdute dove una delle sue più riuscite creazioni annaspa nel fango.
Incrocio lo sguardo di un paio di contadini, affondo nella vacuità delle loro misere esistenze. Larve della dissipazione, vermi che provocano nausea alla stessa coscienza che li cresce.
Ma se mi concentro posso sentire il profumo delle essenze bruciate e le voci che affiorano dal mio passato.
Eccoli davanti a me in una tetra parata: i sentimenti più dolorosi, le emozioni più pungenti, l’ansia di cose impossibili e la tremenda nostalgia di ciò che non c’è mai stato, il desiderio di ciò che avrebbe potuto essere, l’insoddisfazione per l’esistenza stessa del mondo.
Devo rimanere concentrata: c'è molto da portare a termine. Non posso fallire.
Dyane Alfarham